La proposta della Commissione UE di vietare la retrocessione delle commissioni dai produttori ai distributori dei prodotti di investimento ha inevitabilmente generato un grande dibattito sulle modalità di retribuzione del servizio di consulenza offerto dalle reti collegate ad istituti finanziari. Il dibattito si concentra in genere sull’opportunità o meno di introdurre tale divieto, mentre noi intendiamo affrontare la questione da un altro punto di vista, intendiamo cioè valutare se la retrocessione delle commissioni sia la forma di retribuzione più coerente con la natura del servizio di consulenza.
Partiamo da una semplice osservazione: una situazione nella quale la definizione di un servizio, il suo contenuto e la modalità con la quale viene retribuito sono tra loro coerenti è un buon presupposto per la chiarezza dell’offerta e del rapporto contrattuale che si instaura tra il cliente e chi gli fornisce il servizio. In ambito finanziario questo può essere considerato parte del concetto di trasparenza, elemento essenziale di tutela dei risparmiatori.
Esaminiamo la consulenza offerta da un consulente indipendente (iscritto all’Albo Unico
Consulenti Finanziari – sezione Consulenti Autonomi). Si tratta di una tipica prestazione d’opera intellettuale, nella quale cioè “l’attività intellettiva risulta nettamente prevalente rispetto a quella materiale”. Il consulente fornisce al cliente indicazioni relative alla pianificazione degli investimenti e alla asset allocation, lo aggiorna sulla situazione dei mercati, valuta con lui alternative di investimento, fornisce raccomandazioni di investimento e la reportistica sull’andamento e i costi del portafoglio. Vediamo alcune importanti caratteristiche di questa prestazione d’opera intellettuale:
Si presenta come una tipica attività di consulenza, perché è finalizzata a dare indicazioni che aiutino il cliente a prendere decisioni. È quello che tutti abbiamo in mente quando sentiamo parlare di consulenza: se ricevo un servizio di consulenza mi aspetto che l’aspetto prevalente, se non unico, del servizio che ricevo consista nel fornirmi valutazioni e consigli che mi siano di aiuto in una mia attività
Non è un’attività di intermediazione: il consulente non può detenere o avere accesso a somme di denaro del cliente, né è parte delle transazioni finanziarie che il cliente esegue a seguito delle raccomandazioni ricevute. Benché il consulente, a determinati fini, possa essere assoggettato a adempimenti propri anche degli intermediari, la sua non è una attività di intermediazione.
Non è un’attività di collocamento: il consulente non può avere accordi per la distribuzione di prodotti finanziari
Non è retribuita in funzione dei prodotti consigliati: poiché retribuisce un servizio che comprende diverse attività di analisi e valutazione e si manifesta in attività di diverso tipo all’interno di una complessiva relazione fiduciaria di consulenza, la parcella valorizza il servizio nella sua interezza, in funzione del suo valore e della sua complessità e dell’impegno richiesto. In questo senso, ad esempio, il consulente può anche dare indicazioni di non investimento, di tenere liquida parte delle somme disponibili, e questo non si differenzia per nulla, in termini di servizio e suo compenso, dalle indicazioni di investimento.
Possiamo perciò dire che siamo in una situazione coerente: definizione, contenuto e modalità di retribuzione del servizio sono allineati e sono fonte di chiarezza per il cliente, che sa che servizio ha acquistato e lo paga in modo coerente con la prestazione che riceve e che ne favorisce la qualità:
Per il cliente è una modalità trasparente, visto che il compenso è pattuito e riportato in fattura, ragion per cui sa esattamente quanto paga ed è motivato a valutare se il costo del servizio è commisurato al suo valore.
Per il consulente la modalità di retribuzione non legata ai prodotti incentiva a dare attenzione a tutte le componenti del servizio e quindi a mettere in risalto l’intero processo di pianificazione e definizione delle raccomandazioni, piuttosto che il solo contenuto in termini di prodotti e raccomandazioni di investimento
Nell’attuale discussione sul proposto divieto di retrocessioni si fa invece riferimento al servizio di consulenza fornito dalle reti di istituti finanziari. Se esaminiamo, sulla base di quanto abbiamo prima detto, il servizio offerto, è immediato notare che in questo caso esiste certamente un’attività di consulenza, ma esistono anche un’attività di intermediazione e una di collocamento prodotti. Definizione e contenuto del servizio non sono in questo caso perfettamente allineati, e quindi questa è una possibile fonte di confusione per il cliente, che si sente offrire il servizio di consulenza e magari gli sfugge il peso delle altre due componenti.
Qui entra in gioco la modalità di retribuzione del servizio e non ci interessa a questo proposito parlare di divieti, introdurre i quali è compito del legislatore se ritiene ci siano motivi tali da giustificarlo. Notiamo però che, anche in assenza di divieti, ogni istituto è libero di adottare la modalità che preferisce e questa scelta finisce inevitabilmente per caratterizzare il modello di business. Se, per propria scelta, l’istituto finanziario retribuisce il servizio di consulenza (in realtà, consulenza più collocamento più intermediazione) attraverso le retrocessioni, che sono strettamente legate ai prodotti utilizzati, significa che tra le tre componenti del servizio quello portante nel modello adottato è il collocamento, perché sono i prodotti sottoscritti dai clienti che vanno direttamente a determinare la redditività del business.
Dal punto di vista del cliente non vogliamo tornare sui problemi di trasparenza che la
retrocessione delle commissioni provoca, vogliamo invece aggiungere che se il cliente è abituato a pagare in base ai prodotti che usa, sarà a quelli che darà importanza e non alle attività di pianificazione e di asset allocation che le accompagnano e non c’è poi da stupirsi se buona parte dei risparmiatori italiani pensa che la consulenza sia gratuita o sostiene di non essere disposta a pagare per essa. In sostanza, il messaggio che ha ricevuto finora è che tali attività non hanno un valore tale da dover essere pagate.
Lo scarso allineamento tra definizione del servizio (consulenza), suo contenuto (consulenza,
intermediazione, collocamento) e sue modalità di pagamento (prodotti, quindi collocamento) rende la situazione sicuramente poco chiara. Ancor di più perché si parla di consulenza sia per il servizio offerto dai consulenti indipendenti che per quello offerto dagli istituti finanziari, quando abbiamo visto che si tratta di due attività in gran parte diverse.
Se cerchiamo analogie con la situazione in cui ad un’attività (anche di) consulenza corrisponde una modalità di retribuzione tramite commissioni, vediamo che nel settore assicurativo il servizio offerto dai broker di assicurazione ha una componente di consulenza (si valutano i rischi corsi dal cliente e le coperture più adatte), di collocamento (il broker ha accordi con diverse compagnie per la copertura dei rischi individuati) e di intermediazione (il broker può direttamente far acquistare al cliente la copertura che gli ha proposto). Come retribuzione del servizio, il broker riceve parte del premio incassato. In ambito finanziario poi, il brokerage business negli Stati Uniti può comprendere molti servizi, tra i quali la pianificazione finanziaria e fiscale, l’intermediazione ed il collocamento di prodotti finanziari; i broker possono ricevere commissioni, calcolate in vario modo a seconda dei servizi offerti e delle scelte della società di brokeraggio.
A noi non interessa proporre una nuova terminologia, sappiamo quanto queste cose siano
delicate e complesse. Pensiamo tuttavia che quanto più la normativa del settore,
indipendentemente dell’introduzione di specifici divieti, rispecchierà i diversi modelli di servizio presenti sul mercato, tanto meglio sarà in termini di chiarezza per i clienti e di efficacia delle norme introdotte.
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